Intelligenza artificiale, intelligenza vegetale

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Ci sono diverse definizioni di intelligenza. La più ampia, che può essere adattata anche a soggetti non umani, è di tipo funzionale. Secondo questo approccio, l’intelligenza è la capacità di risolvere problemi inediti, analizzando la situazione per attuare comportamenti efficaci. Questa è la concezione che presupponiamo quando, per esempio, diciamo che i topi sono più intelligenti dei koala o gli scimpanzé più dei cercopitechi.

Anche la nozione di intelligenza artificiale si basa su questa definizione. Pensiamo a una situazione tipica, per esempio la comprensione di un testo: siamo in possesso di un codice di base (la comprensione di un linguaggio, con tutte le competenze grammaticali e semantiche del caso), nel quale si trasmettono delle informazioni nuove in uno dei molti modi possibili. Per comprendere questo testo, dobbiamo usare il codice che possediamo per decodificare un messaggio che non conosciamo, cercando di estrapolarne il maggior numero di informazioni possibili. Non solo quello che il testo dice, ma anche come lo dice, a chi, in quale contesto, ecc. Ora, sulla base della definizione precedente, possiamo dire che un’intelligenza è più o meno sviluppata in base alla quantità e alla correttezza delle informazioni di questo tipo che può ricavare da una data quantità di testi diversi.

Quindi, questa definizione è molto utile per risolvere un problema tipico: valutare il livello di intelligenza di operatori diversi da noi. Il suo punto di forza sta nel fatto che ha un approccio di tipo black box. In altre parole, non ci si preoccupa di quello che avviene dentro la scatola, ma di come elabora le informazioni che riceve (input) per produrre dei risultati (output). In particolare, non ci dobbiamo interrogare sul vissuto interiore di questa entità intelligente. Quando vediamo un topo che trova con estrema rapidità il pezzo di formaggio alla fine del labirinto, capiamo che ha analizzato efficacemente le informazioni a sua disposizione, senza bisogno di immedesimarci nella sua coscienza.

Allo stesso modo, nel riconoscere un’intelligenza artificiale non abbiamo nessuna necessità di immaginare una sua coscienza. Se i nostri processi cognitivi funzionano a partire da una coscienza, da un io che si rende consapevole del mondo esterno e vi interagisce, sarebbe comunque sbagliato estendere questa struttura a tutte le intelligenze possibili.

Pensiamo a un formicaio o a un alveare. Indubbiamente, questi sistemi sono in grado di interagire con il mondo esterno in modo estremamente efficace. Lo fanno governando una grande massa di individui elementari, con ogni probabilità privi di autocoscienza, che ricevono e trasmettono informazioni con codici anch’essi elementari. Il risultato è un sistema altamente complesso, in grado di notare tutti gli eventi di un territorio ampio e di reagire nel modo più efficace. Anzi, in grado di influenzare in profondità il proprio ambiente. Si tratta indubbiamente di un comportamento molto intelligente, senza che in alcun punto vi sia la minima traccia di coscienza o consapevolezza.

Lo vediamo in modo ancora più evidente nel mondo vegetale. Pensiamo, per esempio, a un grande albero: le sue radici registrano continuamente le minime variazioni nel terreno, prodotte da un gran numero di fattori. Le foglie sfruttano con estrema efficienza l’energia solare, adattandosi alla perfezione a ogni variazione. Tutto il sistema reagisce continuamente all’ambiente circostante, gestisce la circolazione di acqua e nutrienti, sviluppa la crescita delle varie parti in modo funzionale e nella direzione migliore. La quantità di interazioni di una pianta con l’ambiente circostante è stupefacente e la loro efficacia straordinaria. Stefano Mancuso, studiando questi fenomeni, ha sviluppato l’idea di una neurobiologia vegetale, dando vita a un campo di studi estremamente promettente. Segnalo in particolare il suo L’intelligenza delle piante, ottimo punto di partenza per scoprire questo mondo.

Anche qui siamo di fronte a un’intelligenza senza coscienza, che possiamo iniziare a comprendere soltanto abbandonando le nostre concezioni abituali o, dovremmo dire, i nostri pregiudizi. Un classico esempio di questi pregiudizi è quando pensiamo alle intelligenze artificiali come individui consapevoli, estremamente potenti e, di conseguenza, sempre pericolosi. Invece, la realtà è che stiamo certamente sviluppando delle nuove intelligenze, ma che queste ci somigliano molto meno di quanto pensiamo. Il problema, a questo punto, è radicalmente diverso da quello cui siamo abituanti.

In altre parole, la questione non è come rapportarci a una qualche incarnazione di HAL-9000, ma come convivere con intelligenze non coscienti. Forse siamo sulla soglia di un nuovo mondo: uno in cui dovremo misurarci con una nuova ecologia delle intelligenze.