Algoritmi malefici e colpe condivise: rompere le bolle con la prospettiva di Leibniz

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Pochi anni fa, a margine di un incontro durante il quale si presentava una rivista online che avevo contribuito a fondare, dissi: «Se voglio, posso manipolare le persone su un qualsiasi tema sociale rilevante (vaccinarsi o no, avere un figlio… tutto). Andrò a cercare persone con una base di interazioni già attiva vicina al tema che voglio proporre e userò pubblicità mirata. Indirizzerò, così, l’opinione delle persone in un certo modo. Mi approprierò della navigazione degli utenti che mi interessano, stringendola sempre di più in una bolla. Ecco, è qui l’importanza di saper distinguere quando un’informazione è lì per un motivo».

La «personalizzazione» e la creazione delle «filter bubbles» sono temi che mi riguardano quotidianamente: perché mi occupo di intelligenza artificiale, e tutti sappiamo che, nel dire comune (e disinformato), l’origine di tutti i mali digitali è da ricondurre ai temibilissimi “algoritmi”.

Imputare la colpa dell’esistenza delle bolle ai soli algoritmi è però un clamoroso e grossolano errore di prospettiva. E oggi – mentre siamo assediati da informazioni personalizzate, con una mente sempre più attanagliata da decine di bias cognitivi – il concetto di “prospettiva” è ciò che più manca nelle nostre visioni quotidiane.

Un filosofo riconducibile alla dottrina del Prospettivismo è Leibniz, il quale sosteneva che una città vista da diverse angolature appare di volta in volta totalmente differente, tanto da poterla concepire come «una città pressocché moltiplicata prospettivamente» all’infinito.

Ecco, il mondo digitale degli anni Venti che stiamo vivendo è un po’ come un’enorme, gigantesca, città: miliardi di persone la abitano, vivendola nella loro prospettiva e agglomerandosi in gruppi/bolle di varia grandezza.

E dunque, provando a spostare il proprio punto di vista (cambiando i siti che si frequentano, smettendo di seguire sui social soltanto le “solite persone), la grande città di internet sembrerà certamente differente da come la si vedeva dalla prospettiva precedente.

Allo stesso modo ci si può rendere conto che l’idea che la creazione di bolle – con il loro caravanserraglio di fake news, manipolazioni, becere propagande ecc. – sia “colpa” di chi crea gli algoritmi è un problema prospettico.

Perché la realizzazione di algoritmi risponde a delle domande specifiche provenienti dalla società che vive “offline”. Le tecnologie odierne ci permetterebbero di creare degli algoritmi in grado di garantire una navigazione in rete tutt’altro che filtrata o personalizzata; conosciamo e comprendiamo molto bene i bias causati dalla vita online, e dunque si potrebbero tranquillamente aggirare, spingendo ogni utente a rompere o quantomeno dilatare la propria bolla da un giorno all’altro.

Questo non avviene… ma non perché gli algoritmi (e dunque i loro “malefici creatori”) abbiano un qualche piano in serbo: è il mondo culturale, politico, economico che vive offline ad avere ormai un bisogno enorme di far funzionare le cose in un certo modo, determinando in tal senso la forma della realtà che abitiamo.

La “colpa” di un mondo vittima della personalizzazione online è dunque molto meno mirata e molto più complessa di quello che si potrebbe pensare (abbandonandosi a un bias di ancoraggio e abusando in malo modo del Rasoio di Ockam).

L’unica cosa che però resta certa è che un cambiamento può e deve partire dalla prospettiva singola di ognuno di noi, dal desiderio di “rompere le bolle” e uscire dalla caverna digitale che assomiglia troppo a quella fantasticata da Platone: il filosofo greco immaginava l’arrivo salvifico dei sapienti per liberare “la gente comune” dalle catene che gli costringevano in un caverna e finalmente mostrare loro la bellezza composita del mondo di fuori; in realtà, oggi, nessun filosofo barbuto verrà a tirarci fuori dai nostri antri digitali, perché dipende soltanto da noi lo scatto di reni per cambiare prospettiva, rafforzando la nostra propria responsabilità.

Alla fine dell’incontro di cui parlavo all’inizio, concludevo il mio intervento con parole che, a distanza di anni, sento sempre più urgenti: «Come se ne esce? Minuziosa ricerca della verità. È questo l’unico modo per uscire almeno parzialmente dalla propria bolla. Se ho un’idea mi devo mettere in discussione e fare di tutto per smontarla. Insomma, rendermi conto che, quasi sempre, ciò che so lo so perché me l’hanno detto, l’ho visto e l’ho imparato passivamente: e questo non va bene. Bisogna vivere quotidianamente un po’ come un saggista o un blogger che devono trovare più fonti per verificare la validità ciò che hanno scritto. Guardando al mondo digitale odierno, è giusto dire che probabilmente non si può uscire mai del tutto dalle bolle. Ma è importante provare a riconoscere almeno la differenza tra giornalismo e propaganda, tra verità e pubblicità. Costruire, giorno per giorno, bolle più ampie possibile, se proprio non si riesce a romperle».